Secondo la psicologia junghiana, la religione è un fatto fondamentale per la psiche; Jung afferma che il principio religioso è salutare, una specie di panacea per la nostra psiche.
In ogni credo religioso esiste un principio di verità, ma cos’è la verità? Non è possibile all’essere umano affermare una verità quale verità assoluta se non compiendo un atto di hybris, cioè di arroganza.
Se consideriamo le affermazioni contrastanti di diverse religioni dobbiamo concludere che ciascuna religione possiede una verità relativa come sono relative tutte le verità di cui gli esseri umani sono portatori. Possiamo affermare che ogni idea di Dio, essendo un prodotto della mente umana, è necessariamente limitata, non universale, come ogni negazione di Dio. D’altra parte è umano anche il bisogno di credere che la propria verità è “la verità”. E’ fondamentale che ogni idea religiosa sia vera ed esistente per chi la professa, perché soltanto a questa condizione tale idea può essere così vitale da attivare importanti energie psichiche; il problema della sua verità oggettiva, da questo punto di vista, è secondario. Non è di verità assoluta che ci interessa parlare.
E’ interessante ed utile accostarsi al Buddismo attraverso la psicologia poichè la psicologia, per sua stessa natura si occupa della sofferenza psichica e Buddha iniziò il suo cammino occupandosi della sofferenza degli esseri umani causata da vecchiaia, malattia e morte ed elaborò un metodo prevenire e curare tale sofferenza.
La sofferenza è una realtà ineluttabile nella vita umana, a volte un dolore può causare una sofferenza psichica così intensa e profonda che la psicologia non trova appigli per intervenire, deve riconoscere la propria impotenza. Tali dolori richiedono allora un approccio diverso, un diverso atteggiamento morale che può trovare il suo fondamento in una fede religiosa o in un pensiero filosofica. A volte, abbracciando una filosofia o un credo religioso si può guarire da profonde sofferenze che sembravano insuperabili poiché l’appoggiarsi con fede ad un credo qualunque esso sia, aiuta la nostra psiche a ritrovare l’equilibrio perduto. Posso portare ad esempio la guarigione di un anziano contadino affetto da nevrosi fobico-ossessiva. Il caso non era trattabile con la psicoanalisi, ma quando l’uomo si affidò alle cure di uno stregone di paese, alle cui arti prestava piena fiducia, recuperò in pochi giorni la salute psichica e fisica. La nostra psiche sa utilizzare qualunque mezzo le venga offerto per superare le crisi più profonde, ecco perché le religioni hanno anche una valenza terapeutica nella loro capacità di essere “idee attive” dentro di noi. Torniamo dunque al Buddismo.
L’insegnamento contenuto nei testi buddisti consiste nell’approdare ad una e considerazione oggettiva del dolore nel suo concreto manifestarsi nella vita quotidiana ed alla valutazione delle sue cause. Buddha liberò la sua coscienza dai legami dei fatti quotidiani, liberò il cuore dalla confusione delle emozioni, si liberò dalle illusioni attraverso la contemplazione oggettiva della catena delle cause.
Il Buddismo è l’unica religione il cui fondatore non si dichiara profeta di dio o un dio stesso; è l’unica religione il cui fondatore si proclama Buddha che significa l’Illuminato, il Risvegliato. La sua predicazione è volta alla liberazione dell’essere umano dal dolore.
Egli nacque nell’aprile o maggio del 553 a.C. nella città di Kapilavastu; era il figlio minore del sovrano Suddhodana e di sua moglie Maya; si racconta che si sposò a sedici anni, a ventinove lasciò il palazzo e, raggiunta l’illuminazione trascorse il resto della sua vita in predicazione fino alla sua morte circa ottantenne. Queste sono le scarne notizie storiche circa la vita del Buddha, il resto è consegnato al mito. Il mito narra che il piccolo, destinato a diventare il ”Risvegliato”, scelse i suoi genitori ed entrò nel corpo di sua madre Maya attraverso il fianco destro di lei nelle sembianze di un elefante o di un bambino di sei mesi. C’è da notare che il fianco è la zona renale ed i reni erano considerati nell’antichità sede del sentimento; inoltre si riteneva che vi fosse in questa zona una cavità sufficiente a contenere un bambino. E’ evidente l’allusione ad un concepimento che non avviene attraverso l’utero; non può non venire alla mente il concepimento miracoloso del bambino Gesù da parte della Vergine Maria, concepimento che nelle opere pittoriche del Rinascimento avviene ad opera di un raggio di luce o di un soffio che entra nell’orecchio destro della Madonna. Vediamo dunque che un elemento divino s’incarna in entrambi i casi in un bambino eludendo la necessità umana dell’accoppiamento di maschio e femmina.
Appena nato il bambino (Buddha) muove sette passi verso nord ed emette un ruggito di leone. Il nord è legato alla stella polare che è un riferimento fisso per l’orientamento e rappresenta il pensiero; il ruggito è la voce dell’animale che non teme nessuno ed è il simbolo stesso della forza e al tempo stesso anche della natura istintiva umana (la parte semi-animale); il numero sette ricorre più volte, come sappiamo, anche nella religione cristiana.
Se consideriamo che il Dio della Genesi biblica crea il mondo in sette giorni, sei di lavoro ed uno di riposo, che il dolore della Madonna affronta per la crocifissione del figlio viene raffigurato con sette spade che le trafiggono il cuore, possiamo dire che il 7 è il numero che indica ciò che è compiuto. Il neonato si presenta quindi come qualcuno che è già compiuto. Poi annuncia: “Io sono il sovrano del mondo, io sono il migliore del mondo, io sono il primogenito del mondo. Questa è la mia ultima nascita. Ormai per me non ci saranno altre esistenze” . Ecco dunque perché il futuro Buddha è un essere compiuto: avendo concluso la ruota delle esistenze è diventato ciò che doveva essere. Potremmo dire, usando un termine junghiano, che si è individuato cioè ha totalmente sviluppalo le sue possibilità.
Poi va oltre il cosmo, raggiunge la cima del mondo, abolisce lo spazio ed il tempo; egli è il primo e il più vecchio del mondo; è quindi giovane e vecchio al tempo stesso. Il bimbo riceve il nome di Siddharta, ovvero colui che ha raggiunto lo scopo”. Pochi giorni dopo la nascita del bambino la madre Maya muore per rinascere come divinità in un mondo superiore.
La morte della madre significa la separazione dalla madre, intesa come presa di coscienza di sè; nella vita di Cristo un fatto simile accade quando il piccolo Gesù si smarrisce e viene poi ritrovato a colloquio con i sapienti; in quel momento egli rifiuta la madre.
Dopo la morte di Maya il piccolo Siddharta viene allevato da una zia per sette anni (ecco ancora il numero sette) viene poi educato al suo compito di principe; a sedici anni sposa due principesse e, tredici anni dopo una delle due gli partorisce un figlio. A questo punto, avendo generato un figlio maschio, Siddharta può lasciare la vita attiva per dedicarsi a quella contemplativa nel rispetto delle antiche leggi. Egli inizia un processo di ricerca individuale al termine del quale raggiungerà il suo scopo, la liberazione dal dolore, con i suoi soli mezzi, non più guidato dai riti e dalle divinità. E’ qui evidente la grande differenza con il percorso del Cristiano dove ogni esperienza, compresa la fede vive della grazia divina.
La ricerca del Buddha lo conduce a diventare discepolo di diversi maestri: prima un bramino, poi un maestro di yoga, ma gli insegnamenti di entrambi si rivelano inadeguati alle sue esigenze ed egli si ritira quindi nella foresta degli asceti dove pratica una penitenza rigidissima vivendo con un solo grano di miglio al giorno per sei anni fino a che, resosi conto che la mortificazione del corpo non conduceva all’illuminazione pone fine alla penitenza, si lava nel fiume ed accetta da una donna una ciotola di riso bollito nel latte. Recuperate le forze fisiche, si raccoglie in meditazione sotto un albero, divenuto poi mitico, deciso a non muoversi fino al raggiungimento dell’illuminazione.
Durante questa meditazione egli subisce l’attacco di Mara. Mara è il dio della morte e dell’amore ed in quanto tale non può non essere avversario della liberazione dalla prigionia dei sensi; egli sa che il raggiungimento della salvezza da parte di Siddharta porrebbe fine al suo regno poiché vincendo la morte l’Illuminato avrebbe posto fine anche alla metempsicosi[1]: non più morte e non più nascita quindi la vita stessa è minacciata dalla salvezza con cui Sakyammi si prepara a sacrificare il mondo.
Mara dunque sferra l’attacco scatenando contro l’uomo in meditazione tutti i demoni e gli spettri che sono al suo servizio; egli tenta di distrarre l’asceta dal suo scopo sia con lusinghe di piaceri terreni sia con la minacciosa presenza dei mostri che lo accompagnano, ma il futuro Buddha non si lascia sedurre né spaventare. I meriti accumulati nelle vite precedenti, per più di un’epoca cosmica, lo rendono saldo e paziente, sereno e compassionevole e tale disposizione d’animo crea attorno a lui una barriera protettiva che lo rende invulnerabile, lo strepito delle schiere di Mara non riesce a turbarlo.
Siddharta tocca la terra con la mano destra chiamandola a testimone dei suoi meriti e del suo scopo; la terra svela i suoi misteri e si fa garante della sua parola. Il dio si ritira sconfitto mentre sull’asceta illuminato cade una pioggia di fiori.
Vediamo ora come Buddha concentra le sue forze per giungere alla liberazione dalla sofferenza. Egli giunge all’illuminazione attraverso quattro stadi di meditazione della durata di quattro ore ciascuno. Ecco che compare qui un altro numero, il quattro, che ha valore magico in molte culture. Jung ci fa notare che la molecola del carbonio, l’elemento base della vita organica, è composta da quattro atomi. Possiamo quindi supporre che il numero quattro, rimandando alla nostra stessa struttura fisica, abbia un valore archetipico per gli esseri umani e per questo lo troviamo a caratterizzare momenti fondamentali in diverse religioni (anche nel cristianesimo nel quale l’originaria trinità diviene quaternità con il dogma dell’Assunta).
Nel primo stadio egli coglie la totalità dei mondi ed il loro divenire, il terrificante ciclo di nascita, morte e reincarnazione. Nel secondo stadio egli ricorda e contempla le proprie vite anteriori e quelle di tutti gli altri esseri. Il terzo stadio è quello dell’illuminazione poiché in questa fase della meditazione Sakjammi scopre la legge perenne che rende possibile il ciclo delle rinascite, si tratta della legge delle dodici produzioni reciprocamente indipendenti (ovvero la formula della causalità). Egli scopre anche le condizioni necessarie per arrestare queste produzioni, giunge cioè a possedere le quattro nobili verità ed ecco perché da questo punto non si chiamerà più Siddharta ma Buddha, “il Risvegliato”.
Ciò avviene al levar del sole simbolo di un nuovo principio di coscienza, è come se fosse l’alba di un nuovo modo di sentire e percepire la vita.
Per sette settimane Buddha resta in meditazione poi si reca a Benares dove ritrova i cinque discepoli che si erano allontanati da lui quando aveva abbandonato le pratiche ascetiche, rivela loro il suo nuovo stato ed espone le quattro nobili verità: il dolore, l’origine del dolore, la sospensione del dolore, il cammino che conduce alla cessazione del dolore. Tutto il pensiero di Buddha è focalizzato sulla sofferenza umana e sul suo superamento.
E’ opportuno notare la differenza che c’è tra la visione che del dolore ha il buddismo e quella proposta dalla religione ebraico-cristiana: in questa il dolore inizia con la cacciata dal Paradiso Terrestre ed è dato agli umani quale punizione per avere infranto una legge divina. Il primo sermone di Buddha ai suoi primi seguaci che si convertono e divengono santi, si chiama “il primo giro della ruota della legge”. Buddha converte poi suo padre ed altri parenti tra i quali i suoi cugini Ananda e Devedatta. Il primo diverrà poi il suo discepolo prediletto mentre il secondo, inizialmente suo seguace, sarà poi suo nemico e rivale. Dal punto di vista psicologico possiamo dire che egli converte anche quella parte che sarà la sua ombra, il suo opposto. Potremmo tentare un parallelo con la coppia Cristo-Lucifero mentre ad Ananda potrebbe corrispondere il discepolo Giovanni. Successivamente, durante la stagione delle piogge del 478 a.C., Buddha, accompagnato da Ananda, si stabilisce nel villaggio dei bambù e qui cade ammalato di dissenteria. Questo particolare sottolinea alla nostra attenzione l’umanità del Buddha. Nelle narrazioni della vita di Cristo non si trovano accenni alla sua vita corporea poiché contrasterebbero con la sua deità e suonerebbero blasfemi. Buddha supera la malattia ed Ananda gioisce perché il Beato non sarebbe morto senza lasciare le sue istruzioni alla comunità.
Infatti il Buddha trascorre tre notti in veglia e percorre le quattro strade della meditazione dopodiché muore in una notte di plenilunio nel mese di novembre del 478 o 487 a.C. .
Cerchiamo ora di parlare del messaggio del Buddha. Egli non diede mai una sistematizzazione al suo pensiero e si rifiutò sempre di discutere problemi filosofici. Il suo silenzio portò ad interpretazioni varie del suo pensiero ed al nascere di diverse sette e scuole. Fin dall’inizio la comunità buddista fu retta da regole monastiche che ne salvaguardarono l’unità, similmente a quanto avvenne per le comunità monastiche cristiane. I monaci vivevano insieme condividendo alcune idee fondamentali circa la trasmigrazione delle anime, il compenso per le buone azioni compiute in vita e le tecniche di meditazione finalizzate ad acquisire il Nirvana. Oltre ai monaci seguivano l’insegnamento del Buddha anche numerosi laici che, per convertirsi proseguivano la loro vita nel mondo; essi acquisivano per la loro fede una post-esistenza in uno dei numerosi paradisi ultraterreni dal quale passavano poi ad una reincarnazione superiore che consentiva un più elevato livello di felicità. Buddha non condivideva le speculazioni cosmogoniche dei bramini; per lui il mondo non è creato da un dio ne da un demiurgo, esso è creato continuamente dalle azioni buone o cattive degli uomini. Tale posizione è diametralmente opposta a quella ebraico-cristiana nella quale tutto ciò che esiste, esiste per volere divino. Buddha inoltre fa sue e sviluppa le analisi dei maestri del Sankhija che sono le tecniche di contemplazione dello yoga classico ma ne rifiuta i presupposti teorici.
Nel suo primo sermone a Benares, Buddha espose “le Quattro nobili verità”.
La prima verità riguarda la sofferenza; nel pensiero di Buddha ogni importante esperienza umana è sofferenza: la nascita, il declino, la malattia, la morte, l’unione a ciò che non si ama, la separazione da ciò che si ama. Ogni relazione dell’essere umano con il mondo o con un proprio simile è segnata dal dolore.
La seconda verità riguarda le origini della sofferenza: essa nasce dal desiderio, dalla sete della reincarnazione; da questo nascono sempre nuovi desideri che sono il desiderio del piacere dei sensi, quello di perpetuarsi, quello di estinzione e quello di auto-annullamento. Quest’ultimo desiderio è condannabile quanto gli altri perché, dice il Buddha, conduce al suicidio che, non arrestando il ciclo delle nascite, non è una soluzione per l’essere umano.
La terza verità tratta della liberazione dal dolore che consiste nella abolizione di questi desideri.
La quarta verità ci indica le vie che conducono, all’eliminazione della sofferenza, prescrive cioè i mezzi per guarire i mali dell’esistenza; Buddha chiama questo metodo “cammino intermedio” poiché è una via da seguire tenendosi al centro, lontano dai due estremi della ricerca della felicità attraverso il piacere dei sensi ed il perseguimento della beatitudine mediante un ascetismo troppo rigoroso.
Il “cammino intermedio” viene chiamato anche “Ottuplice sentiero” poiché consiste in otto atteggiamenti coretti, essi sono: retta opinione, retto pensiero, retta parola, retto agire, rotto modo di sostentarsi, retto sforzo, retta attenzione , retta concentrazione.
Si tratta di esercizi di tipo yoga che sono il nucleo centrale del messaggio del Buddhismo.
Vediamo come meditando sulle prime due nobili verità, cioè il dolore e l’origine del dolore, il monaco può scoprire la transitorietà (o impermanenza) cioè la non sostanzialità delle cose, quindi la non sostanzialità del proprio essere.
Buddha classifica in 5 categorie tutto ciò che esiste nel mondo:
1) L’insieme delle parvenze o del sensibile cioè tutte le cose materiali, gli organi sensoriali, gli oggetti;
2) le sensazioni provocate dal contatto delle cose con i cinque organi di senso;
3) le percezioni o concetti che risultano dai contatti, cioè i fenomeni cognitivi;
4) le costruzioni psichiche comprendenti l’attività cosciente ed inconscia;
5) il pensiero.
Questi cinque aggregati descrivono il mondo delle cose quindi anche la condizione umana, si giunge quindi a ciò che il buddismo chiama “la concatenazione delle cause e degli effetti, ovvero il circolo delle vite e delle rinascite. E’ questa la coproduzione condizionata che ha dodici fattori membri uno dei quali è l’ignoranza. L’ignoranza produce la violazione delle leggi che produce le costrizioni psichiche che condizionano i fenomeni psichici mentali e così via, fino al desiderio sessuale che genera una nuova esistenza che si conclude con la vecchiaia e la morte.
Quindi l’ignoranza, il desiderio, l’esistenza sono interdipendenti e sono le cause della serie ininterrotta di nascite, morti, trasmigrazioni.
Buddha afferma che meditando sulla realtà delle persone si distrugge l’egoismo e la sua stessa radice; le ultime due verità vanno meditate insieme ed il risultato è l’eliminazione del dolore ottenuta con la estinzione completa della fede; si perviene al Nirvana soltanto con la concentrazione e la meditazione. Il Nirvana non è quindi una realtà trascendente ma è uno stato tangibile durante la vita: Buddha più volte afferma che tra gli yogi soltanto lui stesso e coloro che seguono la sua via possiedono il Nirvana. La religione è quindi l’occhio dei santi che rende possibile il contatto con il “non costruito”, cioè il Nirvana ed è una visione trascendentale che si ottiene mediante tecniche contemplative che sono state elaborate in oriente secoli prima dell’esistenza del Buddha. I principi dello yoga, concentrazione e meditazione, sono però rielaborati ed integrati dal genio del Buddha. Come avviene? Il monaco impara a riflettere sulla propria vita fisiologica per prendere coscienza degli atti che vengono solitamente compiuti in modo automatico ed inconscio: respirare, camminare, cibarsi, parlare; impara ad essere presente in tutto ciò che fa. A questo punto il monaco è pronto ad affrontare le tecniche vere e proprie che sono la meditazione, il raccoglimento e la concentrazione.
Nella 1° meditazione avviene il distacco dal desiderio e si prova la gioia del ragionamento e della riflessione; nella 2° si ha l’acquietamento dell’attività intellettuale e si sperimenta la serenità interiore; nella 3° ci si distacca anche dalla gioia e si resta indifferenti ma coscienti, si vive la coscienza dell’ indifferenza e si sperimenta la beatitudine; nella 4° meditazione si rinuncia sia alla gioia che al dolore ottenendo lo stato di assoluta purezza, di indifferenza di pensiero. Questo iter in quattro stadi mira alla purificazione del pensiero e dopo avere svuotato il pensiero dei suoi contenuti il monaco si concentra sulla infinità dello spazio, sull’infinità della coscienza, sulla nullità fino a raggiungere uno stato che non è coscienza ne incoscienza. Vediamo che si tratta di un addestramento psico-mentale: si fissa il pensiero su certi oggetti o concetti onde ottenere l’unificazione della coscienza e la soppressione dell’attività razionale.
E’ evidente come con la pratica di questi esercizi si proceda sulla via della liberazione attraverso quattro stadi: a questo punto il monaco si è liberato dall’errore e dal dubbio e dovrà rinascere soltanto altre tre volte dopodiché, definitivamente liberato, rinascerà in un essere divino. Il purificato da ogni passione avrà poteri sovrumani e raggiungerà il Nirvana. Buddha ha elaborato un metodo di meditazione integrato dalle pratiche ascetiche e dalle tecniche yoga. Egli accordava lo stesso valore all’ ascesi, alla meditazione di tipo yoga ed alla comprensione della dottrina.
Nel suo insegnamento tutte le verità devono essere meditate e sperimentate; egli sostituisce all’ideale arcaico di assumere un’esistenza in un cosmo perfetto un nuovo ideale di élite spirituale: l’annientamento del mondo.
Proviamo ora a mettere a confronto alcuni aspetti del Buddismo e del Cristianesimo.
Cristo è figlio di Dio, Buddha è il Risvegliato; da un lato c’è un essere divino, dall’altro un essere umano e mortale pervenuto alla verità. Il valore di Buddha non discende da una paternità divina anzi egli diventa se stesso allontanandosi dagli antichi dei per giungere da solo alla illuminazione. In questa sua lontananza dagli dei il buddismo è molto diverso anche dall’antica religione greca nella quale un pantheon divino interagiva continuamente con il mondo umano influenzandone la stessa vita quotidiana.
Dalla diversa natura dei due fondatori discende una diversa concezione del dolore nelle due religioni. Nel Cristianesimo il dolore è strumentale e ha una duplice funzione: quello sofferto in vita serve ad espiare il peccato originale (‘tu partorirai figli con dolore ” dice Dio ad Eva scacciata dall’Eden; e ad Adamo “con fatica ricaverai il cibo dalla terra”) ed a riavvicinarsi a Dio; il contatto con il divino avviene attraverso il dolore morale e fisico come insegnano le mortificazioni inflitte al proprio corpo dagli asceti e dai mistici cristiani. Per il cristiano accettare il dolore in vita significa meritare un premio dopo la morte la massima gioia, cioè la visione di Dio.
Il dolore sofferto dopo la morte è invece la punizione che Dio infligge ai peccatori: dolore fisico delle varie torture praticate nell’inferno e quello morale, ben più terribile, causato dalla più grande delle privazioni cioè la lontananza di Dio. Nel Buddhismo il dolore è un punto di partenza ed un nemico da vincere; esso è causato dalle continue reincarnazioni e può essere superato attraverso opportune tecniche che consentono di unificare il corpo e la mente dominandoli entrambi. Tale disciplina mira al raggiungimento del divino non per mezzo del dolore ma “al di là” di questo.
Possiamo dunque dire che il Buddismo tende al superamento del dolore mentre la religione Cattolica lo provoca e lo utilizza. Occorre però sottolineare che originariamente non era così; il Cristianesimo è nato come religione salvifica e Cristo nei Vangeli parla di gioia. La concezione del dolore di cui abbiamo parlato si è determinata storicamente attraverso l’organizzarsi della nuova religione nella struttura di potere della Chiesa cattolica, non bisogna dimenticare che il dolore ha una grossa forza coercitiva. Perché noi occidentali, malati e sofferenti, possiamo trovare aiuto nella tradizione buddista? Perché abbiamo sufficienti energie spirituali per ascoltare quel messaggio. Abbiamo già detto che la psicologia junghiana considera fondamentale per la psiche il sentimento religioso; basti pensare che il concetto junghiano di libido è comprensivo sia dell’impulso sessuale che dell’istanza religiosa che è dentro di noi ed una componente archetipica della nostra psiche; la tensione religiosa rivolta al divino è fondamentale nel processo di individuazione.
La consolazione offertaci dalla fede Cristiana dovrebbe in teoria esserci sufficiente, ma avviene che qualunque idea, una volta viva e vitale, con la consuetudine diventa stereotipata, per cui perde di significato e di efficacia; accostarsi a qualcosa di nuovo e sconosciuto apre prospettive nuove. Quindi il Buddismo è tanto ascoltato perché propone qualcosa di profondamente diverso rispetto alla religione Cristiana. In questa la fede è un dato, un dono divino e il cristiano non può fare nulla per procurarsela; nella religione Buddista la verità non è data ma occorre cercarla attivamente; la fede da un atto passivo diviene un fatto attivo.
Quando una fede non aiuta più a superare conflitti che conducono alla nevrosi, tale fede non è più interiormente operante, allora è necessario rivolgersi altrove. Questo non significa rinnegare la propria religione ma, se occorre, integrarla svincolandosi dalla convinzione di essere portatori di verità. Il Buddismo si fonda su una realtà psicologica alla quale possiamo riconoscere validità generale e ci offre la possibilità pratica di disciplinare la nostra vita psichica. Per tollerare la sofferenza occorre comprendere il significato ed il senso e gli strumenti per questa comprensione possono essere forniti da una filosofia o da una religione; in questo senso filosofia o religione possono essere una fonte di salute psichica, una possibilità di equilibrio. Ricordiamo che Cristo ed i discepoli guarivano gli ammalati dimostrando così il potere terapeutico della loro missione. La nostra cultura occidentale conosce il predominio arrogante della coscienza che s’impone attraverso la illusoria potenza della tecnologia. A tale situazione l’inconscio provocatoriamente reagisce agitando dentro di noi nuove istanze religiose. Possiamo considerare la nascita della psicoanalisi, in quanto scienza e cura dell’anima, l’affermazione di un bisogno di una profonda istanza religiosa creatasi nel momento in cui la coscienza, attraverso la filosofia, aveva affermato la morte di Dio.
L’atteggiamento religioso riequilibra l’atteggiamento estremo della coscienza permettendo di recuperare l’interezza della personalità a favore della individuazione. Il momento cruciale della vita di Buddha è senz’altro l’illuminazione o “risveglio” mentre la vicenda di Cristo raggiunge il suo culmino nella Resurrezione.
Il risveglio di Buddha è un fatto storicamente accettato e psicologicamente reale; quanto alla Resurrezione di storicamente certo c’è soltanto la scomparsa del corpo del Cristo morto. Esiste tuttavia una risurrezione psicologica: una rinascita che segue la morte intesa come esperienza di rinnovamento. Già nelle mitologie preesistenti al Cristianesimo si trova sempre in diverse culture, un personaggio che vince la morte e vincendo la morte ridà vita ai propri genitori e parenti; tale personaggio è l’Eroe, un essere superiore. Nei miti egiziani si tratta di Osiride, il cui mito è legato al ciclo del sole e della semina: egli, dopo essere stato ucciso e smembrato, si ricompone e risorge diventando così la personalità superiore di ogni individuo, poiché rappresenta l’uomo completo, il Sé, la totalità. Il “Sé” è un archetipo, cioè un principio antico, uno dei modelli originari di comportamento che condizionano la nostra esperienza di noi stessi e del mondo: il Sé, il Vecchio, il Fanciullo, la Grande Madre ecc.
Il Sé costituisce il nostro centro psicologico e ne diventiamo coscienti nella seconda parte della nostra vita, nell’età adulta, ed è in questo momento che in noi si desta il Cristo interiore, ovvero ritiriamo la proiezione sul Cristo storico per trovare il divino dentro di noi cioè il nostro Sé e questo è il vero senso del Cristo della religione; egli soddisfa il bisogno di una realtà spirituale poiché rappresenta il Sè, la totalità, l’uno, la riunione con il cosmo.
L’istanza religiosa non può essere elusa. Quando il Cristo storico nacque ed operò si era in un periodo di vuoto religioso; era venuta meno la fede negli antichi dei e la divinità era impersonata dal Cesare. A questa personificazione terrena del divino, il Cristo oppose una nuova immagine di Dio. Possiamo fare un paragone con la situazione odierna nella quale il grande potere dello Stato tende a rendere omogenee le individualità.
Come il Cristo di allora era un principio divino incarnatesi per condurre alla totalità del Sé, l’attuale bisogno di un nuovo principio religioso indica la tendenza inconscia a ricostituire la totalità dell’essere umano: il Sé. Mi piace concludere riportando un pezzo tratto da un Vangelo Apocrifo: “Quando dai due si fa l’Uno e quando dall’interno si fa l’esterno e dall’esterno si fa l’interno e dal sopra si fa il sotto allora si entra nel Regno. Io sono la luce che è al di sopra di ogni cosa, io sono il tutto. Il tutto è venuto da me e il tutto giunge a me. Taglia un legno ed io sono là solleva una pietra e là mi troverai.”
Tratto da ACTA IPNONOLOGICA numero monografico, studi del Prof. Giovanni Gocci gennaio – maggio 2005
[1] Metempsicosi: trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro fino al raggiungimento della totale indipendenza e libertà dalla materia.
Grazie Giovanni. E’ una sintesi preziosa , illuminata e illuminante.